Emanuela de Cecco e Vicente Todoli, Curators, 2002

Arte all’Arte è giunta alla sua settima edizione e, come ogni anno, si svolge in spazi particolarissimi, spazi che spesso hanno vissuto una vita precedente ospitando le più svariate attività di cui conservano le tracce, spazi di fatto non predisposti per accogliere l’arte contemporanea ma di volta in volta riadattati a seconda dei progetti degli artisti e delle possibilità concrete. 

Come testimoniano molte foto presenti in questo catalogo, l’apertura della mostra è in realtà il risultato di un lungo percorso di preparazione, un percorso complesso denso di ascolto e di mediazione dove entra in campo un numero di variabili molto più alto rispetto alla maggior parte di mostre allestite in un qualunque spazio espositivo deputato. 

Ogni decisione va verificata alla luce di una sorta di test di realtà molto concreto: il progetto di un artista noto in tutto il mondo può essere sostenuto o contrastato dal punto di vista di un parroco di un piccolo paese, in alcuni casi conta di più avere il polso della situazione di fatto piuttosto che far valere possibili legittimazioni intellettuali.

Credo che ciò che rende questa esperienza significativa consista nel dare corpo una volta all’anno ad una piccola e concentrata utopia concreta attraverso la quale l’arte ri-trova una possibilità di dialogo effettivo – prima ancora che con il pubblico – con le diverse realtà che la ospitano.

Se il modo in cui l’arte viene veicolata e comunicata al pubblico è da sempre uno degli interrogativi centrali attorno ai quali sono chiamati continuamente ad interrogarsi tutti coloro che operano attorno all’arte, oggi tale questione si pone in modo ancora più urgente. 

I musei si trasformano, le logiche dell’intrattenimento acquisiscono un peso che un tempo non avevano nella programmazione, la cultura deve anche divertire. L’arte se intende mantenere un sorta di autonomia in questo processo deve mantenere vivo il confronto con la realtà rinunciando ad arroccarsi in posizioni pseudo aristocratiche. L’ipotesi più interessante è che sia possibile configurare una sorta di terza via capace di comunicare senza snaturarsi, senza cedere a ricatti sempre più pressanti di carattere populista. In questo quadro, Arte all’Arte è un’esperienza dove tali interrogativi si trasformano in azione, e dalla quale ogni anno si cerca di offrire una panoramica di possibili tentativi concreti di risposta. 

Oltretutto la fiducia nella dimensione del fare invalida alcune tra le più diffuse lamentele su questioni legate alla difficile sopravvivenza dell’arte contemporanea in un Paese incredibilmente ancora così spaventato dalla produzione artistica non ascrivibile – per ragioni anagrafiche – al patrimonio dei beni culturali. A fronte di più di un sindaco disposto a dialogare direttamente e a confrontarsi con il progetto di un artista appare inoltre ancora più forte l’immobilismo delle grandi città dove la burocrazia e lo stratificarsi di promesse mancate neutralizzano quintali di energie. 

In questo contesto la risposta nasce proprio nel corso del percorso di preparazione della mostra, e prende forma attraverso la rete di relazioni – costruita negli anni ma ogni anno riveduta e approfondita – che nasce tra le amministrazioni locali, i responsabili dei luoghi dove di volta in volta vengono allestiti i lavori, gli artisti stessi, i curatori, gli organizzatori, gli artigiani e i tecnici. Già in questa fase ci si confronta infatti con la vita del territorio, con le disponibilità concrete, i timori e le forme di resistenza, già in fase di progettazione esiste una sorta di pubblico di prima fascia al quale è richiesto un coinvolgimento che si trasforma in una responsabilità precisa che può essere di vitale importanza rispetto alla realizzazione di uno specifico intervento o alla necessità di cambiare strada e ripartire in un’altra direzione. 

Prima ancora che il pubblico dei visitatori veri e propri, il lavoro di tutti deve passare questa sorta di prima verifica sul campo che forse è in assoluto una delle fasi più interessati proprio in relazione a quel bisogno di test di realtà a cui accennavo in precedenza.

Va detto che nei giorni di apertura di questa settima edizione di Arte all’Arte, forse uno dei momenti più intensi è stato quando il responsabile dell’associazione che gestisce l’Orto dei Pecci a Siena (associazione che si occupa del reinserimento di persone con problemi di disagio psichico) ha parlato del lavoro di Cildo Meireles sottolineando le relazioni e l’importanza che questa presenza ha in un contesto con una storia così delicata e diversa da tutto ciò che costituisce la vetrina più nota di una città così frequentata dai turisti come Siena.

Quando i primi a trovare le ragioni per il dialogo con i lavori d’arte sono coloro i quali materialmente con esso si troveranno a convivere nel periodo di durata della mostra, credo si possa dire superato il test di realtà a cui facevo accenno in precedenza e diventa concreta la possibilità che tale presenza inconsueta entri a fare parte a tutti gli effetti della realtà di questo luogo.

Non credo che su questo versante esistano delle soluzioni facili, tantomeno che sia possibile adottare una procedura valida per ogni situazione. Spesso la presenza di elementi di discordia e o meglio di non completa adattabilità sia non solo fisiologica ma addirittura sana, a volte conferma di una forma di sottile resistenza da parte del lavoro stesso a soddisfare una richiesta specifica. Diffido di chi auspica un’integrazione totale dell’arte con il contesto sociale, penso che sia una visione scappatoia, conciliante in apparenza, di fatto sterile sia per l’artista che per il pubblico. Felix Gonzales Torres in una conferenza tenuta al The Drawing Center a New York una decina di anni fa, parlava a proposito delle possibilità da parte degli artisti di ritrovare spazi di azione all’interno della logica dominante che privilegia la divisione del lavoro culturale, in altre parole l’esatto contrario della consapevolezza richiesta dall’agire in territori non protetti. All’interno di un discorso più ampio rivolto agli artisti circa le relazioni tra l’arte e gli enti pubblici di finanziamento, Gonzales Torres esortava a non dare spazio alle istruzioni per l’uso e a riappropriarsi dei propri bisogni. Con ciò intendo dire che tra il trasformare  il proprio fare arte in servizio e la provocazione autoreferenziale esiste un terreno intermedio in cui valgono entrambe le posizioni. E senza dubbio è proprio dalla pratica di questo terreno intermedio che oggi possiamo acquisire delle ragioni significative per continuare a lavorare.

E’ sulla scia di queste riflessioni che ha preso forma il progetto di quest’anno, i percorsi degli artisti presenti condividono questo punto e credo che i progetti realizzati in questa occasione ne diano evidente conferma. Non c’è intenzionalmente spazio per interventi esplicitamente mirati a coinvolgere il pubblico sotto il segno del gioco, i lavori in mostra cercano una relazione sottile con gli spazi, che in alcuni casi tiene conto o nasce direttamente dalla relazione con i luoghi e la loro conformazione fisica, in altri riflette un’attitudine più problematica come d’altra parte è problematica la relazione che viviamo oggi rispetto alla nostra stessa presenza in un luogo ed è sintomo di una questione più ampia che vede tutti sospesi tra il desiderio di radicamento e il desiderio (avendone la possibilità) di essere/andare altrove. 

Non credo che sia un caso che la riflessione sul tempo sia presente nel lavoro di più di un artista. Penso al tempo sempre uguale scandito dalle pedane con seduta di Balka negli spazi dell’ex carcere di  S. Gimigano, al tempo della pausa e della vita quotidiana che credo sia il vero sottotesto del film Mario Merz di Tacita Dean proiettato nel piccolo cinema del circolo di Mensano.

In tempi di corsa frenetica verso obiettivi sempre meno chiari il filo rosso che emerge da più contributi consiste nell’esigenza di un ripensamento, nel relazionarsi con il pubblico senza voler stupire ma privilegiando la dimensione dell’ascolto, non avere paura di compiere un passo verso il buio e la profondità (Marisa Merz, Cildo Meireles, Miroslaw Balka), accogliere e valorizzare le differenze (Damian Ortega), guardare il territorio più che consumarlo (Baumgarten) considerare le tracce dell’esistente, come nei disegni di Tacita Dean dove i profili delle mappe seguono le venature dell’alabastro stesso.